Ovunque si vada a bere, il Gin&Tonic è una certezza per una lunga serie di motivi. Ma alcuni dettagli continuano a essere trascurati. E sì, il nome vuole la congiunzione.
Famoso ovunque nel mondo e bevuto fin negli angoli più remoti dell’universo miscelato, eppure incompreso e bistrattato come pochi altri cocktail: il Gin&Tonic è uno dei principi del panorama bar internazionale, grazie al suo aspetto pulito, la sua facilità di beva e l’essenzialità della sua ricetta, ma cela alcuni aspetti che ancora stentano a cristallizzarsi nella cultura popolare. A partire dal nome: la semplice doppietta degli ingredienti, che richiede quindi la congiunzione nel mezzo (pronunciata gin and tonic), e non va guastata con l’italico tutt’uno, gintonic.
Le origini di denominazione e accoppiata si fanno risalire storicamente alla seconda metà del Diciannovesimo Secolo, quando il gin, distillato britannico per eccellenza, veniva utilizzato per mandare giù l’acqua tonica da poco brevettata per garantire l’apporto dell’antimalarico chinino, soprattutto tra le truppe della Compagnia Britannica delle Indie Orientali in missione. In seconda battuta, le guarnizioni: il Gin&Tonic soffre di un abuso di bacche, frutta, cortecce, foglie, rametti, tutti utilizzati nella rincorsa alla garnish più elaborata.
Ed è sbagliato: qualsiasi ingrediente lasciato a macerare (per quanto poco) nella parte alcolica tenderà a rilasciare i propri umori, andando ad alterare i sentori originari del gin prescelto. Basterebbe quindi esprimere gli olii essenziali di una scorza di limone sulla superficie del drink, per aromatizzarlo e nulla più, soprattutto quando si tratta di un London Dry poeticamente secco.
Infine, la gradazione: inspiegabilmente, il Gin&Tonic si trova spesso a vestire i panni dello spauracchio alcolico, come se fosse sinonimo di inebriamento immediato e assicurato. Ebbene, se ben miscelato, il Gin&Tonic non arriva neanche ai 10°: meno di un calice di vino bianco.