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Il valore di un classico

Il rinnovato successo della miscelazione deve moltissimo ai cosiddetti cocktail classici: ma cosa sono, e perché sono così importanti?

La riscoperta del mondo bar, che a partire dagli anni Dieci del Duemila ha riportato ai piani altissimi la tradizione della miscelazione, si fonda su due pilastri imprescindibili. Il primo è rappresentato dall’utilizzo di prodotti freschi e di qualità: le nebbie dei temibili pre-mix artificiali e di dubbia realizzazione, che ha avvolto buona parte delle decadi ’80-’90, è stata diradata dagli agrumi spremuti al momento e soprattutto dalla ricerca di etichette andate impolverate. Referenze come vermouth, rye whisey e sherry erano andate quasi dimenticate, nei meandri del bere poco accorto di venti o trenta anni fa, mentre oggi sono reperibili pressoché ovunque.

Parallelamente, grazie all’infaticabile lavoro di bartender illuminati sparsi per il mondo (in Italia è indubbio l’apporto fondamentale dato da Leonardo Leuci, Antonio Parlapiano, Alessandro Procoli e Roberto Artusio al Jerry Thomas Speakeasy di Roma), sono tornati in auge i cosiddetti cocktail classici: ricette già preparate e bevute a inizio Novecento, quando non ancora prima, che una volta riscoperte e riadattate ai palati contemporanei si sono confermate come imprescindibili per i professionisti del bancone di oggi. E non è certo soltanto una questione di gusti, anzi, non lo è per nulla: i distillati e i liquori disponibili cento anni fa non sono paragonabili a quelli che si trovano oggi sul mercato, per ovvi motivi storici e tecnologici, cui si aggiunge anche il cambiamento climatico (si vedano gli invecchiamenti) e ulteriori dinamiche.

Miscele come il Negroni (1919), l’Old Fashioned (antecedente il 1806), il Daiquiri (1900) e decine di altre sono in realtà manifesti sia tecnici che culturali: prima di tutto perché la loro struttura, che sia quindi di un cocktail in parti uguali, di un sour, di un distillato arricchito di zucchero e bitter, serve a fare da “guida” per la creazione di cocktail moderni e firmati dai bartender odierni. Tutti i cosiddetti signature drinks, “firmati” dai bartender moderni, ricalcano infatti lo scheletro di ricette che affondano le proprie radici fino a un paio di secoli fa.

E a questo va aggiunto l’inestimabile valore storiografico che i cocktail classici portano nel bicchiere: perché il Sazerac di New Orleans era in origine miscelato con il cognac, che venne poi sostituito dal whiskey di segale? Perché Planter’s Punch, Ti’ Punch, Daiquiri hanno gli stessi ingredienti, ma l’origine del rum utilizzato fa tutta la differenza del mondo? Perché si dice che il Mojito risalga al Draque, e per quale motivo il succo di lime è così presente nelle ricette tropicali? Apprendere queste nozioni (molte delle quali, è inutile nascondersi, sono comunque ammantate da leggenda) permettono ai bartender di avere piena cognizione di ciò che preparano e su cui lavorano, garantendo il massimo dell’aderenza alla tradizione, come vale anche in cucina per capisaldi come la cacio e pepe o i plin al tovagliolo. E dall’altro lato del banco, l’esperienza di un ospite al bar, arricchendosi di cultura e contenuti, diventa un autentico viaggio che varrà la pena ripetere (responsabilmente).

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