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Bloody Mary

Bloody Mary, il cocktail della discordia

Bloody Mary

Si hanno dubbi sull’inventore, sulle tecniche di miscelazione, sull’orario adatto per consumarlo: eppure il Bloody Mary rimane uno dei classici preferiti in tutto il mondo.

Se c’è un cocktail al tempo stesso controverso e celebre ovunque nel mondo, per storia, composizione, tecnica, significato nell’immaginazione di massa, quello è il Bloody Mary. Il drink del giorno dopo per eccellenza (non a caso il 1° gennaio è considerato il World Bloody Mary Day), con la sua combinazione di acidità, spezie e leggerissimo tenore alcolico, è uno dei protagonisti assoluti della miscelazione globale, per quanto al centro di non poche diatribe che ne aumentano il fascino maledetto.

In primis, le origini: spessissimo se ne attribuisce la nascita a Fernand Petiot, leggendario bartender dell’altrettanto leggendario Harry’s New York Bar di Parigi, che nel 1921 sarebbe stato il primo a miscelare vodka e succo di pomodoro (gli unici due ingredienti della versione primitiva).

Altre fonti indicano invece il musicista e attore statunitense George Jessel, stella del cinema muto e non solo, come l’inventore del cocktail nel 1927, o quanto meno il responsabile del nome: nella sua (decisamente colorita) biografia The World I Lived In (1975), Jessel racconta di una notte di bagordi ininterrotti che sfociò in una mattina di simile guisa.

Insieme ad un paio di colleghi di baldoria, Jessel mescolò succo di pomodoro, succo di limone, salsa Worcestershire e quello che definisce vodkee, un prodotto “arrivato dalla Russia”. Fu allora che la socialite Mary Brown Warburton, a sua volta di ritorno da una festa, lo raggiunse e accettò di assaggiare questa nuova miscela: finì con il rovesciarsi l’intruglio sul vestito bianco, e commentò: “Now you can call me Bloody Mary!“.

Petiot e Jessel si rimbalzarono la responsabilità di aver creato una pietra miliare del bere, senza mai davvero risolvere la questione. Fatto sta, il Bloody Mary è un drink da bere almeno una volta nella vita, oggetto peraltro di una certa mistica tra bartender: i professionisti del bancone lo preparano spessissimo con la tecnica del throwing, che consiste nel lanciare il liquido da una metà all’altra dello shaker, per permettere al composto di incamerare aria e diluirsi (assolutamente non provato scientificamente, basta semplicemente mescolare gli ingredienti con ghiaccio, ma l’effetto scenico è ben più accattivante).

Ricostituente dopo una notte “troppo notte”, perfetto come aperitivo grazie alle sue note pungenti e piccanti (si usano sale, pepe, tabasco), è uno di quei cocktail privi di codice vero e proprio. A seconda dei gusti del bevitore può essere infatti più o meno speziato, più lungo o meno diluito, addirittura cambiare il distillato di base: è Red Snapper con il gin, Bloody Maria con il tequila. Una sola cosa è ormai entrata stabile nel costume del cocktail: il gambo di sedano come decorazione.

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